L’incompatibilità al carcere.

L’incompatibilità al carcere.

Il medico del carcere o il perito sono tenuti a fornire chiari elementi clinici di giudizio quali, ad esempio, l’emendabilità della condizione patologica mediante appropriata terapia, la condizione di cronicità o di lenta evolutività nonché la prognosi quoad vitam.

Per la concessione del differimento della pena restrittiva della libertà personale che deve essere eseguito a favore di chi si trova in condizioni di grave infermità fisica, occorre quindi la sussistenza di una malattia grave, tale cioè da porre in pericolo la vita del condannato o provocare altre rilevanti conseguenze dannose e, comunque, tale da esigere un trattamento che non si possa agevolmente attuare nello stato di detenzione.

Come già rilevato, il giudizio sulla gravità ha carattere relativo giacchè si fonda sul rapporto tra condizione individuale del soggetto e condizione dell’ambiente carcerario e, pertanto, l’accertata infermità costituirà causa possibile di differimento non solo perché grave nel senso sopra indicato, ma soprattutto in quanto potenzialmente aggravata dalla condizione carceraria.

Non può e non deve invece assumere rilievo il carattere cronico ed inguaribile della malattia dato che il requisito della guaribilità o della reversibilità dell’infermità non è richiesto dalla norma.

La valutazione dell’incompatibilità relativa si correla quindi al singolo luogo di detenzione, per cui una volta mutato questo, si riavrà la compatibilità con il carcere, oppure, finito il periodo di ricovero, ad esempio, in un luogo di cura, l’incompatibilità “temporanea” può venire meno.

L’incompatibilità al carcere e il rinvio dell’esecuzione della pena rappresenterebbe quindi il rimedio residuale, al quale cioè ricorrere “in tutti quei casi in cui il diritto alla salute ed all’integrità personale del detenuto non sia altrimenti tutelabile da parte del complesso degli strumenti normativi preposti (assistenza interna, assistenza in centri clinici specialistici dell’amministrazione, assistenza ospedaliera esterna ai sensi dell’art. 2 legge penitenziaria), ovvero il protrarsi della carenza di adeguati interventi terapeutici esponga il detenuto a rischi incompatibili con il rispetto dei parametri costituzionali” per cui soltanto nei casi in cui non sia realizzabile una tutela “attiva” del diritto alla salute del soggetto condannato nei modi descritti sarà possibile applicare l’art. 147 comma I n. 2) c.p..

Sempre in merito all’identificazione dell’infermità fisica, la Corte di Cassazione ha precisato che per giungere all’incompatibilità al carcere “deve ritenersi grave non esclusivamente quello stato patologico del condannato che determina il pericolo di morte, ma pur ogni altro tipo d’infermità fisica che cagioni il pericolo di altre rilevanti conseguenze dannose o, quantomeno, esiga un trattamento che non si possa attuare in ambiente carcerario e che necessariamente abbia probabilità di regressione nel senso del recupero, totale o parziale, dello stato di salute” e in altra sentenza precedente ha affermato che, ai fini dell’applicazione dell’art. 147 comma I n. 2 c.p. “è necessario che l’infermità fisica, oltre a potersi giovare, nello stato di libertà, di cure e trattamenti sostanzialmente diversi e più efficaci di quelli che possono essere prestati nelle apposite istituzioni dell’ambiente carcerario, sia di tale gravità, per proporsi infausta quoad vitam o per altro motivo”.

In ossequio ai principi costituzionali, il giudizio di gravità o di infermità ha quindi carattere non assoluto ma relativo fondandosi su un rapporto di volta in volta mutevole tra condizioni individuali del condannato e condizioni dell’ambiente carcerario (Minna e Mangili).

Albino e Pannain suggeriscono che “per comportare la formulazione di un giudizio di non compatibilità l’infermità deve essere di entità tale che lo stato detentivo determini- con ragionevole prevedibilità – causa di peggioramento delle condizioni del soggetto o di non miglioramento – anche riabilitativo – o, pur non incidendo sulla evoluzione della infermità, sia però motivo di sofferenza non conciliabile con la salvaguardia dei diritti della persona o non consenta una attuazione, ragionevole, del diritto di scelta del medico e del luogo di cura”.

La natura di provvedimento temporaneo cui tende il differimento per le prime, infatti, risulta certamente soddisfatta poiché la durata della pena detentiva non sarà intaccata dalla sua essenza e in questi casi la concessione del beneficio potrà essere motivata, oltre che da ragioni squisitamente umanitarie, dalla inattuabilità della necessaria terapia in ambiente carcerario.

Nel caso, al contrario, di patologia divenuta cronica ci si è chiesti se si possa applicare tale istituto considerando che, in questo modo, il rinvio della esecuzione della pena si sostanzierebbe in una mancata esecuzione della pena stessa.

Per il vero, oggi, nel caso di situazioni fisiche insanabili, vi è la possibilità di optare per la detenzione domiciliare in luogo del differimento, ai sensi dell’art. 47 ter, c. I ter O.P .

Il rinvio obbligatorio dell’esecuzione della pena deve essere disposto anche nel caso in cui riguardi “donna incinta o che abbia partorito da meno di un anno (art. 146 comma I, nn. le 2 c.p.)” o

  1. “nei confronti di persona affetta da AIDS conclamata o da grave deficienza immunitaria accertate (art. 286 bis comma II c.p.p.)”, o
  2. “altra malattia particolarmente grave per effetto della quale le sue condizioni di salute risultano incompatibili con lo stato di detenzione, quando la persona si trovi in una fase della malattia così avanzata da non rispondere più, secondo le certificazioni del servizio sanitario penitenziario o esterno, ai trattamenti disponibili e alle terapie curative (art. 146 comma I, n.

L’incompatibilità assoluta e relativa prevista dall’art. 286 bis c.p.p. e art. 146 c.p. si estranea dal livello di efficienza del servizio sanitario penitenziario, riferendosi invece ad altri parametri normativi o di giudizio ma ciò comportava un automatismo nei provvedimenti adottati dal giudice perchè il medico, rilevate le evidenze diagnostiche, accertava l’incompatibilità dalla quale scaturiva a sua volta l’obbligo di differimento della pena o il divieto di custodia cautelare.

Altra riflessione è inoltre per quei  casi di detenuti affetti da una patologia che abbia come conseguenza inevitabile la morte, come, per esempio, un carcinoma in fase terminale, situazioni nelle quali, stricto sensu, non è possibile parlare di incompatibilità con lo stato detentivo per motivi di salute, è diffusa una prassi a disporre la scarcerazione, come vero e proprio atto di clemenza dello Stato, che rinuncia al suo potere punitivo nei confronti del malato detenuto.

Del resto, nel caso di malati terminali la funzione stessa della pena perderebbe la sua ragione di essere sancita a livello costituzionale dall’art. 27, III comma, secondo il quale  “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”.

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L’accoltellamento e la morte di un ventenne.

L’accoltellamento e la morte di un ventenne.

Una tragedia evitabile che coinvolge un uomo che in gioventù si trova a gestire il macigno del rimorso e di una storia giudiziaria lunga e complicata.

Il defunto era ebbro d’alcool e cocaina e fu ucciso da parte di un coetaneo per futili motivi: il grado di cottura della pasta.

Futili motivi che determinarono la morte di un giovane.

L’accoltellamento e la morte di un ventenne giunse perchè il coltello da cucina penetro’ il ventricolo sinistro e il polmone dell’aggredito e ciò condusse alla morte.

Io difendo l’aggressore.

Quanto abbia inciso lo stato d’ebbrezza di entrambi nella dinamica dell’aggressione e quanto l’alcool e la cocaina abbia falsato i parametri di lucidità e controllo, responsabilità e percezione del limite è lo scopo del mio mandato.

L’aggredito che subì l’atto mortale nel tentativo di evitare il peggio si inchino in avanti e torse il dorso verso destra per cui offrì la regione anteriore e laterale del torace sinistro.

I tragitti dei colpi inferti sono dal basso verso l’alto.

Sarà necessaria un’analisi approfondita della dinamica e correlarla all’esito dell’autopsia.

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Principio di autodeterminazione.

Principio di autodeterminazione.

Una nonna di 86 anni muore dopo due giorni dall’accesso al PS.

La figlia tre giorni prima per ben due volte chiama l’ambulanza che giunge in verità al domicilio in tempi adeguati e previsti.

In entrambi le occasioni i sanitari visitano la paziente e si accertano delle condizioni cliniche della stessa che non appaiono critiche.

E senza creare allarme, ritengono che non vi siano i presupposti per il ricovero e consigliano la vigile attesa.

Chiamati la terza volta i sanitari cambiano atteggiamento e scelgono il ricovero per approfondire lo stato di salute della paziente.

Questa volta agiscono non chiedendo il consenso della parte interessata.

La povera nonna in verità non vuole andare in ospedale ma è costretta a farlo poichè gli infermieri del 118, con un sotterfugio, Le dicono che è obbligata a seguirli.

La figlia non Le sarebbe stata vicino perchè non poteva (certo ne aveva piacere) benchè fosse la sola che avrebbe potuto, ma le fu impedito.

Libertà di ricovero e principio di autodeterminazione, quindi, non rispettata.

Essi mentono di fatto poichè la nonna sarà accolta in una struttura Covid ove non è possibile l’assistenza del congiunto.

La nonna muore, senza colpa di sanitari, ma è lesa nella sua libertà di ricoverarsi e nel diritto a far rispettare il principio di autodeterminazione, sancito dalla Costituzione.

L’erede sarà risarcita per violazione del diritto alla libertà di autodeterminazione della mamma che aveva tutto il diritto di rifiutarsi.

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Un decesso e le responsabilità dei sanitari.

Un decesso e le responsabilità dei sanitari.

Muore una persona cara.

I familiari sospettano vi sia la responsabilità dei sanitari e/o dell’azienda ospedaliera e mi cercano in videochiamata whatsApp.

Chiedono la partecipazione all’autopsia del medico legale per comprendere perché e come sia accaduto il decesso ed io accetto con piacere perchè l’autopsia è sempre un’esperienza arricchente e spesso mi insegna correlazioni e spunti di riflessione.

Rifletto con il CTU designato sulle cause e sugli eventuali errori omissivi o commissivi.

La specializzazione in medicina interna mi aiuta perché le cause che conducono un paziente alla morte possono essere molteplici e vivere insieme al malato condividendone i pensieri e le sue ansie acuisce la sensibilità clinica.

Le analisi ematochimiche e le immagini strumentali infatti devono essere interpretate e lette con uno sguardo tra le righe alla luce dell’evolversi della patologia che spesso non è quella descritta sui libri.

Le conclusioni cui giunge il medico legale incaricato dalla Procura sono condivisibili sia per la sua competenza metodologica che per capacità critiche (non scontate).

Vi è una concreta premessa su cui costruire l’azione risarcitoria successiva in ambito civilistico.

Sei interessato ad una consulenza medico legale nel corso di un’autopsia ? Contattami al link 

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La vittima del dovere e obblighi relativi.

La vittima del dovere e obblighi relativi.

Egli non può rimanere in attesa degli eventi, proprio perchè in forza di un giuramento è vincolato dalla Legge e dal codice deontologico.

Un poliziotto, mentre e’ allo stadio con i familiari, osservando una lite tra due adulti, si avvicina, prima tenta di farli ragionare, poi cerca di dividerli ma nella colluttazione riceve un pugno sull’occhio.

Perde progressivamente la vista in due anni dopo sofferenze inaudite.

Egli ha il dovere di tentare di sedare la rissa e adempie agli obblighi del Suo ruolo.

La vittima del dovere sarà risarcita dallo Stato perchè  il danno è superiore al valore del 25% di danno biologico secondo le tabelle di riferimento.

La vittima del dovere e obblighi relativi.

Il mio ruolo è difenderlo in CMO e, dopo la doverosa analisi preliminare del caso, far comprendere gli aspetti clinici e medicolegali del danno subito a chi deve dare il giudizio e quantificarne il danno subìto .

Il paziente ritiene di poter riporre la sua fiducia in me.

Se ritieni di essere vittima del dovere contattami al 3488607320 (anche whatsApp).

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L’errore medico e responsabilità

L’errore medico.

Un collega mi chiede aiuto per una vicenda che lo coinvolge qualche anno prima.

Mi racconta che giunto al letto dell’ammalato, in visita domiciliare, prescrive esami e una radiografia, quindi una terapia farmacologica.

Dopo due giorni l’ammalato muore e i familiari imputarono al medico la responsabilità del decesso.

In effetti il sanitario, dall’analisi dei dati dell’accusa, appare sapiente e diligente nell’approccio alla visita, identifica il paziente (che non sembra essere grave), esprime un sospetto diagnostico, chiede un approfondimento, consiglia una terapia condivisibile.

Il decesso non sembra essere imputato a lacune gravi della condotta del sanitario che invece trascura un aspetto frequente: non da’ la possibilità di un contatto (telefonico ?) trascurando un fare empatico che dovrebbe essere parte del progetto assistenziale di ognuno di noi.

Il collega è prosciolto dalla grave accusa di essere responsabile, anche collateralmente della morte dell’ammalato, ma un dubbio mi sovviene.

Se fosse stato più disponibile, avesse manifestato meno frettolosità, lasciato la possibilità di essere contattato dopo qualche ora o il giorno dopo, i familiari sarebbero stati altrettanto severi e dubbiosi sulla condotta eseguita ?

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